| E' l'ultima opera di Ibsen scritta nel 1899, esprime il tema del definitivo tramonto del XIX secolo borghese. Alan Rickman interpreta Rubek. Ho trovato questa trama, mi ricordavo di averla letta quando cercavo materiale su Borkman. Immagino, da come sono vestiti, che la storia potrebbe anche essere stata adattata ai favolosi anni 70. Cercherò di trovare qualcosa di specifico, anche se non è facile, a parte foto non si trova nulla.
Quando noi morti ci destiamo
Il protagonista è un famoso scultore, il professor Arnoldo Rubek, che ritorna in Norvegia, colmo di gloria e di denaro. Ma non è felice. Dopo aver portato a termine, alcuni anni prima, il suo capolavoro, Ilgiorno della Resurrezione, si rende conto che è capace, ora, di scolpire solo busti insignificanti. Tenta di dimenticare l'angoscia di essere un artista forse inaridito e vorrebbe godersi la vita: ma non ci riesce. Con la giovane moglie Maja il dissidio è forte: lui è un tipo solitario e immerso nel pensiero assillante di una nuova opera d'arte, mentre lei desidera una vita più intensa. Maja trova un uomo più attraente in Ulfheim, l'"ammazzaorsi" che, teatralmente, dà prova del suo disprezzo per ogni manifestazione culturale. Rubek, per conto suo, rivede Irene, la donna che era stata la sua modella per l'opera principale. Irene aveva amato Rubek, avrebbe voluto amarlo completamente, con l'anima e il corpo, ma lui non l'aveva accettata come donna, quasi non l'aveva "sentita" fuori dell'arte: aveva voluto "creare la donna pura", ma non l'aveva mai dimenticata. Irene era colpita da una malattia nervosa, pensava di aver ucciso il marito e i figli; era come una "morta vivente". Nella disperazione che affligge i due e in un ultimo tentativo di rivivere, una notte salgono sulla montagna dove una valanga li sorprende. Muoiono insieme: la morte è l'unica soluzione. L'inizio del dramma è di tipo "realista descrittivo": è un giorno d'estate, in un elegante stabilimento balneare. A un tavolino, nel giardino, i protagonisti stanno facendo colazione, conversano, nei loro discorsi c'è un po' di spleen. Pian piano, con la tecnica propria degli ultimi drammi ibseniani, sotto la superficie apparentemente calma si scoprono strati profondi di un simbolismo talvolta troppo stilizzato. Si pone la domanda centrale: come può un artista, nella sua attività autentica, essere allo stesso tempo partecipe di quella felicità che offre un normale amore umano? Ecco il dilemma. Il professor Rubek, l'orgoglioso eroe del dramma, l'uomo che crede di avere conquistato l'immortalità e la gloria, quando scopre di non aver mai vissuto, si ridesta solo per tornare a morire. Come altri personaggi ibseniani, è stato affascinato da un'illusione di amore e di bontà. Risulta un eroe romantico, trasportato dal sogno oppure corroso da passioni meno pure. Alla fine l'incontro con la realtà diventa un urto troppo violento. Un anno prima della pubblicazione di Quando noi morti ci destiamo, Strindberg aveva pubblicato il suo dramma Sulla via di Damasco e ne aveva mandato una copia a Ibsen. Alcuni studiosi sostengono che Ibsen sia stato molto influenzato dall'atmosfera ipnagogica di alcuni drammi strindberghiani. Sembra che Ibsen abbia voluto dare a questo dramma le caratteristiche d'un sogno irreale. La genesi del dramma è interessante: negli abbozzi si trovano parecchi personaggi e scene di vita quotidiana che poi sono stati eliminati. I personaggi secondari divennero più stilizzati. Al cacciatore Ulfheim, moderno fauno, piacciono tutti i tipi di preda: "La mia caccia preferita è l'orso. Del resto mi diverto anche alla caccia delle altre specie di selvaggina, che mi capitano a tiro, aquile o lupi, donne, renne o alci ... poco importa, purchè abbiano le carni fresche, succose e piene di sangue". Tutto l'interesse si concentra intorno ai due "morti destati", Rubek e Irene, ma quest'ultima diventa un personaggio che perde i lineamenti personali in mezzo alla foschia degli intrecci. Alla fine nessuno è realmente capace di compiere una vera distinzione tra sogno e realtà. Il grande artista ha venduto il suo amore per una effimera gloria, e per una più effimera gioia dei sensi: poi viene riportato alla sua prima, unica, donna, e con lei, nel tentativo di raggiungere la simbolica vetta della montagna, viene travolto dalla valanga, più pietosa di tutte le illusioni in cui gli infelici cercano rifugio. Un abisso, una guerra mortale, dividono la gioia dalla ragione. Troppo felice sarebbe la vita, anche di quella umanità superiore alla quale i personaggi di Ibsen appartengono, se la ragione potesse veramente risolvere i loro piccoli e grandi conflitti. Tutto il teatro di Ibsen è una dimostrazione del contrario. La ragione è importante di fronte alle forze eterne, radicate nel sangue dell'uomo e della donna. Esiste l'insuperabile cecità della ragione davanti all'istinto, questo trionfo d'un amore che è sciocco voler spiegare, che è meraviglioso proprio per il suo mistero. Dopo la prima rappresentazione, Quando noi morti ci destiamo ebbe grande successo in Germania, Finlandia, Danimarca e Svizzera. In Italia il dramma fu rappresentato per la prima volta nel 1900 al teatro Fossati di Milano.
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